Chat Facebook: la riservatezza legittima la denigrazione del datore di lavoro?

Discostandosi dalla pacifica giurisprudenza penalistica, la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, con una recente sentenza, ha escluso la configurabilità della diffamazione, e conseguentemente la sussistenza di un illecito di rilevanza disciplinare, in un messaggio (denigratorio del datore di lavoro) inviato tramite una chat Facebook ai suoi vari partecipanti, valorizzando da un lato la libertà e segretezza della corrispondenza e, dall’altro, la (presunta) volontà dei partecipanti alla chat che le proprie comunicazioni non siano divulgate all’esterno.

Tale precedente, peraltro, si discosta dagli stessi orientamenti della Sezione Lavoro. Infatti, relativamente ad un licenziamento irrogato per la pubblicazione di un’immagine denigratoria del marchio aziendale su una chat Facebook a cui partecipavano alcuni lavoratori, la Suprema Corte in precedenza (Cass., 31 gennaio 2017, n. 2499, in Argomenti Dir. Lav., 2017, 3, 762) non ha posto in discussione la potenzialità diffamatoria della condotta limitandosi a confermare la valutazione dei giudici di merito circa l’insussistenza nel caso concreto della lamentata lesione dell’immagine aziendale per la limitata diffusione della vignetta.

Nelle varie pronunce concernenti licenziamenti irrogati per la trasmissione di missive o e-mails denigratorie, i giudici di legittimità non hanno mai considerato la natura “riservata” della corrispondenza né l’assenza di volontà divulgativa valutando invece la portata diffamatoria delle espressioni utilizzate dal lavoratore e l’eventuale esercizio del diritto di critica.

Questo orientamento è stato ribadito dalla Sezione Lavoro in una sentenza coeva a quella in esame e relativa ad un messaggio trasmesso sul circuito Whatsapp per il quale dovrebbero teoricamente valere le medesime considerazioni di riservatezza e segretezza. Nel medesimo senso si è poi pronunciata la giurisprudenza di merito con riferimento a messaggi inviati in chat di gruppo sulla piattaforma Whatsapp e sulla piattaforma Skype.

La sentenza potrebbe quindi costituire un pericoloso arretramento rispetto al rigore sinora manifestato dalla giurisprudenza di merito che ha affermato la potenziale rilevanza disciplinare di esternazioni, offensive nei confronti del datore di lavoro o comunque lesive dell’immagine aziendale, effettuate dai lavoratori sui social network.

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